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IL LATINO DI LEONARDO PISANO
Paolo d’Alessandro
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Il latino di Leonardo Pisano non è molto diverso da quello di altri suoi contemporanei di
estrazione mercantile forniti di adeguata formazione culturale. Gli aspetti più caratteristici, coerenti
con l’argomento tecnico e la destinazione delle sue opere, sono di tipo lessicale e stilistico, mentre
l’ortografia, la morfologia e la sintassi corrispondono a quelli in uso tra la fine del sec. XII e l’inizio
del sec. XIII. Per quanto riguarda l’ortografia, bisognerà tuttavia tenere conto delle frequenti
oscillazioni riscontrabili non solo tra codice e codice, ma anche all’interno dello stesso codice,
spesso nel medesimo contesto, che talora impediscono di ricostruire con certezza l’usus scribendi
dell’autore.
I. ORTOGRAFIA
La trasformazione vissuta dal latino nel corso dei secoli risulta già evidente nei titoli delle opere
maggiori di Leonardo: in Liber abbaci si ha il raddoppiamento della labiale nell’antico grecismo
abacus (da ἄβαξ àbax), in Pratica geometrie l’aggettivo practicus, -a, -um, tardo prestito dal
greco πρακτικόςpraktikòs, è sostantivato e il gruppo consonantico -ct- si riduce alla sola dentale,
secondo una tendenza propria della lingua parlata.
Gli antichi dittonghi ae e oe avevano incominciato a evolversi fin dall’età classica:
originariamente pronunziati distintamente, accentando il primo elemento (àetas), divennero ben
presto una semplice e, aperta nel primo caso, chiusa nel secondo, sicché nel latino tardoantico e
medievale non furono neppure più segnalati: anziché rosae e poena si scrisse rose e pena, in luogo
di geometriae troviamo geometrie. Questa è la grafia diffusa fino all’epoca di Dante e di Petrarca,
un secolo dopo Leonardo. Vd. ancora, p. es., ab. I.2 [I.1]
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vestre obsecundans postulationi (vestre =
vestrae, dat.)
La vocale y era stata tra le ultime lettere a entrare nell’alfabeto latino (sec. I a.C.) e si utilizzava
soltanto per i prestiti di origine greca (p. es. tyrannus, dal gr. τύραννος trannos). Nella pratica
la y era sentita equivalente alla i e da questa vocale fu in seguito sostituita nella scrittura. Della sua
esistenza non ci si dimenticò però mai del tutto, sicché nei documenti medievali ricorre tirannus in
luogo di tyrannus, ma al contrario parole in cui è richiesta la i sono scritte con la y (ipercorrettismo).
Della confusione tra le due lettere restano tracce nel latino di Leonardo: p. es. nelle sue opere è
costante la grafia piramis in luogo di pyramis (gr. πυραµίς pyramìs); nella Pratica geometrie
troviamo ysopleurus in luogo di isopleurus (gr. ἰσόπλευρος isòpleuros, ‘equilatero’), nel
prologo del Liber abbaci (I.9) [I.3] Pictagore anziché Pythagor(a)e (dal gr. Πυθαγόρας, -ου
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Paolo d’Alessandro è professore ordinario di Filologia classica presso il Dipartimento di Studi umanistici
dell’Università Roma Tre e docente di Codicologia presso la Scuola Vaticana di Paleografia, Diplomatica e
Archivistica; è autore di diversi lavori in collaborazione con studiosi di discipline scientifiche tra cui segnaliamo il
volume Leonardi Bigolli Pisani vulgo Fibonacci Liber abbaci, edidit Enrico Giusti, adiuvante Paolo d’Alessandro.
Firenze, Leo S. Olschki, 2020.
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I riferimenti ab.__ si riferiscono alla paragrafatura dell’edizione Olschki 2020, mentre l’indicazione in parentesi
quadra in rosso rimanda ai relativi paragrafi della nostra traduzione italiana.
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Pythagòras, -ou) e in ab. XII.1131-1132 [XII.7.61] sciphus anziché scyphus (gr. σκύφος
skphos), mentre in ab. I.8 [I.3] si legge regolarmente: Egyptum (grafia monottongata per
Aegyptum), Syriam.
La forma Pictagora ci permette di introdurre altri due fenomeni: la frequente caduta di h
(aspirazione ben presto venuta meno nella pronunzia) e il rafforzamento della consonante t (dentale
sorda) per mezzo dell’epentesi anteriore della velare sorda c (t > ct), fenomeno opposto a quello
registrato in pratica, di cui costituisce probabilmente una reazione. La precoce sparizione
dell’aspirazione nella lingua parlata sia in posizione intermedia sia in posizione iniziale ne provocò
la soppressione anche nella lingua scritta (anelitus, non anhelitus anche in Leonardo, ab. I.5 [I.2];
ordeum, non hordeum in ab. IX.1 [IX.1.1] ecc.; yrcinus, non hircinus in ab. XI.135-136 [IX.3.4] e
138 [IX.3.5]; asta, non hasta in ab. XV.101-108 [XV.2.1]), almeno quando non avesse funzione
distintiva o fonetica: si continua a scrivere hora (p. es. ab. XII.127 [XII.3.31] in horis quattuor),
perché ora ha altri significati; in brac(c)hium (p. es. ab. VIII.250 [VIII.3.1] Canna pisana est
palmorum 10, vel brachiorum 4) la presenza di h evita la palatalizzazione (verificatasi nella lingua
italiana: cf. braccio); sopravvive anche il pronome e aggettivo dimostrativo hic, h(a)ec, hoc, troppo
breve e troppo tradizionale per subire alterazioni. Anche in quest’ambito, però, gli scrupoli
ortografici favorirono il diffondersi di forme ipercorrette come habundantia e habundare (con i
composti perhabundare e superhabundare), hedificare, honerare (con il derivato recenziore
honeratio) in luogo, rispettivamente, di abundantia, abundare, aedificare e onerare. Le grafie
aspirate risultano infatti largamente attestate nel Liber abbaci: p. es. ab. V.57 [V.24] Et si aliquid
superhabundaverit, describat habundantiam super ipsam figuram; VIII.302 [VIII.4.11] Et hic
modus est utilis multum in honeratione navium, cum honerentur diversis mercibus (ma onerate e
oneratarum in ab. XII.1250 e 1253 [XII.9.3]); XII.908 [XII.6.55] De illo qui hedificavit palatium.
Per indicare il capitale di una società mercantile Leonardo ricorre al sostantivo hentica (ab.
XII.915-916 [XII.6.57], 925 [XII.6.58] e 930 [XII.6.59]): si tratta di una delle tante varianti grafiche
tramandate nelle fonti (enteca, entica, intica, enticha, enthica) per il grecismo entheca (< ἐνθήκη
enthèke): all’incertezza sull’aspirazione si aggiunge l’alterazione del timbro vocalico, di cui
troviamo un altro esempio in ab. VIII.259 [VIII.3.7] cum totidem obulis e 276 tot obulos valet
palmus: il prestito greco obolus (< ὀβολόςobolòs) è diventato obulus.
Proprio per ovviare alla mancata aspirazione e alla conseguente tendenza a contrarre in una le
due sillabe di nihil o le prime due sillabe di nihilum, nel Medioevo si usava scrivere nichil e
nichilum: vd. p. es. ab. VI.11 [VI.1.7] exibunt integra 295 et nichil aliud; XV.171 [XV.2.23] Rursus
si in eadem cisterna eiciatur lapis qui habeat formam piramidis circularis, hoc est quod in basi sit
ut pes columpne rotunde et vadat ipsius rotunditas semper minuendo versus altitudinem donec ad
nichilum redigatur). Del resto i manoscritti del Liber abbaci attestano talora anche la forma
medievale michi in luogo del classico mihi (dat. sing. di ego), sebbene la disomogeneità delle
testimonianze ci impedisca di stabilire se fosse davvero questa la grafia adottata dall’autore.
Un altro tipo di epentesi è quello verificatosi nel sostantivo columpna, classicamente columna
(senza p). Come abbiamo visto, nella lingua parlata i gruppi consonantici più complessi tendono a
semplificarsi (in italiano sanctus diventa santo con passaggio di -nct- al più semplice -nt-). In
particolare, nel gruppo -mn- le due nasali subiscono un’assimilazione regressiva (-mn- > -nn-) o
progressiva (-mn- > -mm-). Così somnum diventa in italiano sonno e in francese somme(il). Per
contrastare la pronunzia assimilata nella lingua scritta si usa interporre tra le nasali la lettera p,
come avviene nel sostantivo columna > columpna e nel verbo damnare > dampnare: p. es. ab. V.83
[V.39] remanent 3, que ponat super 4 et multiplicet eadem 7 per 1 de 31: erunt 7, que extrahat de
30; remanent 23, que ponat super 30 et dampnet ipsa 3, si vult; vel si non vult, ea in corde habeat
pro dampnatis; XV.169 [XV.2.22] De cisterna in qua eicitur columpna. L’espediente è tanto più
necessario perché in molte zone i parlanti stentano a distinguere la nasale doppia dalla nasale
scempia, come conferma il fatto che nei manoscritti di Leonardo l’accusativo singolare del
sostantivo summa (summam, talora scritto sumam) si confonde con la prima persona singolare
dell’indicativo futuro o del congiuntivo presente del verbo sumere (sumam, ma spesso summam).
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L’Appendix Probi, un manuale di ortografia tardo-antico o alto medievale, testimonia la
tendenza alla soppressione delle vocali atone nella penultima sillaba delle parole sdrucciole
(sincope), richiamando i lettori a scrivere correttamente masculus non masclus, vetulus non veclus,
frigida non fricda, viridis non virdis. Dopo la ‘rinascita carolingia’ il fenomeno fu nel complesso
arginato, ma soldus aveva ormai preso definitivamente il posto del sost. solidus, -i (p. es. ab. III.18
[III.15] sgg.; soldus per l’agg. solidus, -a, -um già in età classica: Hor. sat. I.2.113 inane abscindere
soldo); cooperculum si era trasformato in cuperclium (ab. XII.176 [XII.3.49] De cuppa cuius
fundus est tertia pars totius cuppe, cuperclium est quarta), da cui l’it. coperchio; virga si alterna a
virgula senza apparente differenza di significato (ab. V.13 [V.5] Item si virgule protraherentur
super virgam in hunc modum
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denotant fractiones eius quinque nonas et tertiam et
quartam et quintam unius none). Il sostantivo cuniculus nel famoso ‘problema dei conigli’ conserva
l’ortografia classica cuniculus (ab. XII.996 [XII.7.30] Quidam posuit unum par cuniculorum in
quodam loco qui erat undique pariete circundatus; XII.1000 et habuimus suprascriptorum
cuniculorum summam, videlicet 377; con alternanza ŭ/o nel titolo Quot paria coniculorum in uno
anno ex uno pario generentur), mentre altrove la tradizione manoscritta attesta unanime la forma
sincopata conilius (ab. VIII.303 [VIII.4.11] de coniliis), da cui deriva l’italiano coniglio.
II. LESSICO
Quando una lingua ha una vita così estesa nel tempo e nello spazio come il latino, è inevitabile
che le parole finiscano per usurarsi e non soddisfare più le esigenze espressive dei parlanti. Sin dalla
tarda antichità si diffonde perciò l’abitudine di rinforzare avverbi, congiunzioni, sostantivi e verbi
indeboliti dall’uso servendosi di prefissi, suffissi, locuzioni alternative. L’italiano agnello deriva da
agnellus, diminutivo di agnus (quindi ‘agnellino’), cantare deriva dall’iterativo di cano: si tratta di
termini che in età medievale presero il posto delle forme semplici, percepite come troppo deboli e
quindi inefficaci. Questo processo spiega perché nel latino di Leonardo il diminutivo sacculus abbia
assunto il senso di saccus, insimul risulti assai più frequente di simul, le occorrenze del raffinato
etiam et sovrastino di gran lunga il più trito et etiam, il raro absque ricorra più d’una volta in luogo
di sine e il composto describere si alterni al semplice scribere, di cui condivide il significato.
Anziché il classico inniteo in ab. V.95 [V.43] figura il derivato innitesco (con il suffisso -sco,
originariamente incoativo): Ut que de divisionibus dicta sunt lucidius innitescant. In qualche caso la
ridondanza semantica ha prodotto risultati inattesi: siquidem, che ricorre 45 volte nel Liber abbaci,
non ha più il valore di congiunzione, ma risulta in tutto sovrapponibile al pur molto usato avverbio
quidem: non è un caso che quasi sempre (una sola eccezione in ab. II.6 [II.2]) sia collocato
all’interno della frase: p. es. ab. VIII.101 [VIII.1.41] Multiplicabis siquidem ut superius 3 per suam
virgulam.
Leonardo usa il verbo comedere, ‘mangiare’ (p. es. ab. IX.1 [IX.1]), mai il semplice ĕdere, che,
una volta perduta la percezione della quantità vocalica, si confondeva con ēdere, ‘emettere’. Negli
autori più antichi ĕdere e composti avevano una coniugazione complicata: al presente indicativo la
seconda persona poteva suonare (com)es e la terza (com)est, sicché ĕdere si confondeva anche con
esse. Leonardo scrive invece: leo ovem comedit (ab. XII.127 [XII.3.31]), ecc.
Con i suoi contemporanei, del resto, egli condivide parecchi slittamenti semantici: in ab. II.95
[II.46] Quartam (scil. positionem) vero in loco miliariorum studenter ponere consuescat, l’avverbio
studenter ha l’ormai consueto significato di diligenter. Tra questo genere di innovazioni si può
annoverare anche il verbo descendere, che al tradizionale significato di ‘discendere’ (ab. XII.90-93
[XII.3.14-15], XV.109 [XV.2.23] e 179-180 [XV.2.26]; in partic. ‘scendere dalla nave’, ‘sbarcare’
in XII.931 [XII.7.1] Cum venissent ad locum in quo debebat descendere, nauclerus petivit eis
naulum constitutum, dove probabilmente bisognerà correggere debebant), aggiunge quello di
‘abbassarsi’ (ab. XIII.101 [XIII.2.12] queritur ... quot pedibus caput aste descenderit e 104 donec
caput eius descenderit pedibus 4), e infine di ‘fermarsi’, ‘prendere posto’, ‘mettersi a sedere’
(XII.991 [XII.7.28] et transeunte quodam milite invitaverunt eum, qui descendit et comedit pariter
cum eis; cf. it. scendere in un albergo).
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Altre innovazioni lessicali sono invece conseguenza diretta dei mutamenti fonetici.
L’indebolimento della penultima sillaba atona insieme alla tendenza a palatalizzare dentali e velari
davanti a i/e breve, spiega p. es. l’evoluzione del sostantivo viaticum (propr. ‘ciò che concerne la
via’), trasformatosi in viagium: ab. XII.769 [XII.6.1] Incipit pars sexta de viagiorum
propositionibus atque eorum similium.
In italiano Hispania è diventato Spagna. Allo stesso modo excerptus (participio di excerpo, da
ex- + carpo), passando per la forma volgare excarpsus, ha prodotto l’aggettivo scarsus (detto di
moneta con poco metallo prezioso) e da esso, con l’aggiunta del suffiso -itas, il sostantivo scarsitas:
ab. XI.73 [XI.6.3] Moneta enim quam faciunt, quandoque exit eis aliquantulum larga quandoque
aliquantulum scarsa, idest quod quandoque superhabundat in ipsa aliquantulum argenti quandoque
deficit; XI.75 [XI.6.4] Unde scarsitas, scilicet ½ 1, est differentia que est a minori moneta usque in
monetam quam vult facere. Il medesimo fenomeno si osserva nel sostantivo schacherium, che però
deriva dall’alto francese eschaquier (cf. prov. escac, scacco).
In alcune zone della Romània la seconda sillaba di pacare si era sonorizzata (cf. prov. e
altoispanico pagar, it. pagare) e da ‘pacificare’ il verbo aveva assunto il significato di ‘soddisfare’,
in particolare con denaro. Ne derivò il sostantivo paga: ab. XII.903 [XII.6.54] Quidam miles erat
recepturus a quodam rege causa sui feudi in unoquoque anno bizantios 300, et persolvebantur ei in
quattuor pagas, et in unaquaque accipiebat bizantios 75, hoc est pagam de tribus mensibus.
Il sostantivo plur. bracae (raro il sing. braca) è noto, ma poco usato nell’antichità, giacché solo i
Medi e i Galli indossavano le brache. In seguito i calzoni divennero indumento comune e con essi la
parola usata per designarli, sicché la fascia lombare prese il nome di brac(h)arium: ab. XII.1206
[XII.8.9] In ancha sinistra sub brachario vel supra ... In ancha dextra circa bracharium ... In
renibus circa bracharium. Viceversa anc(h)a è prestito medievale dal francone hanka (cf. franc.
hanche).
Del lessico di Leonardo, com’è ovvio, fanno parte moltissimi termini tecnici: alcuni assai diffusi,
come quelli relativi alle principali operazioni addere e additio, extrahere o auferre (subtrahere
solo in ab. XV.597 [XV.3.131] subtracta inde medietate dragme) e extractio, dividere e divisio,
multiplicare e multiplicatio (ma anche ductus), probare e probatio che avevano goduto di
esistenza ininterrotta sin dai tempi più remoti anche in contesti non specialistici; altri piuttosto rari e
spesso di origine greca, come nel caso di molte figure geometriche menzionate, più ancora che nel
Liber abbaci, soprattutto nella Pratica geometrie. Leggiamo per esempio nella distinctio II: Campi
qui trianguli vel trilateri sunt, alii orthogonii, scilicet rectianguli; alii oxigonii, scilicet acutianguli;
alii quoque ampligonii appellantur, et hec nomina recipiunt ab angulis. Orthogonium quidem
trigonum est quod habet unum ex tribus angulis rectum; reliqui vero duo anguli uni recto sunt
equales. Oxigonium quoque trigonum est quod omnes tres angulos acutos habet. Ampligonium
autem est quod unum ex tribus angulis habet maiorem recto. Recipiunt quidem trianguli nomina a
lateribus, ex quibus quidam ysopleuri, idest equilateri, quidam vero ysocheli, idest equicrurii, et
quidam diversilateri, qui scaleni appellantur. Equilateri quidem sunt quorum omnia tria latera sibi
invicem equantur. Equicrurii autem sunt qui duo latera sibi invicem equalia habent. Diversilateri
quippe sunt qui omnia tria latera habent inequalia. Et notandum quia in omni triangulo tres catheti,
scilicet perpendiculares, erigi possunt, ex quibus unaqueque cadit a quolibet angulorum super latus
subtendens, vel respiciens ipsum angulum.
Parole greche come orthogonius, oxigononius, scalenus ecc., seppure attestate in opere
specialistiche dell’antichità, possono essere arrivate a Leonardo attraverso la mediazione di fonti
recenziori e avere quindi subito delle modificazioni. Così avviene per esempio nel caso del greco
σοσκελής (σος ìsos, ‘uguale’, + σκέλος skèlos, ‘gamba’ ‘estremità laterale’), scritto
isosceles dalla tarda antichità latina, ma ricorrente nella Pratica geometrie nella variante ysochelus.
Leonardo usa costantemente arismetrica (p. es. ab. I.3 [I.2]), di contro al greco ριθμητική
arithmetiké (scil. τέχνη tèchne, scienza dei numeri, detti ριθμοί arithmòi) e al latino
classico arithmetica (femm. sing. o n. pl.). La medesima forma arismetrica è attestata anche in
5
volgare nella Rettorica di Brunetto Latini (ca. 1260), nel Convivio di Dante e nel Sacchetti, ma,
sebbene corrente in età medievale, non trova riscontro nei testi latini antichi e tardoantichi.
Sul lessico matematico influì anche la tradizione araba, che rappresentò per il Medioevo l’unico
tramite per accostarsi alle opere di importanti autori greci, da Archimede ad Euclide, tradotte in
latino a partire da precedenti versioni arabe, e che fu di certo nota, direttamente o indirettamente,
anche a Leonardo. In ab. V.53 [V.22] leggiamo: Numerorum quidam sunt incompositi, et sunt illi
qui in arismetrica et in geometria primi appellantur, ideo quia a nullis numeris minoribus
existentibus ipsis preter quam ab unitate metiuntur vel numerantur. Arabes ipsos hasam appellant,
Greci coris canonos, nos autem sine regulis eos appellamus. La notizia che i Greci dicessero i
numeri primi coris canonos, cioè χωρς κανόνος chorìs kanònos, ovvero ‘senza misura di
riferimento’, sarà giunta a Leonardo attraverso una fonte recenziore, forse la stessa che gli forniva
la denominazione araba hasam.
Possiamo ammettere che una certa conoscenza della tradizione araba rientrasse nel patrimonio
culturale di Leonardo, in giovane età chiamato in Algeria dal padre, inspecta utilitate et
commoditate futura, e colà formatosi allo studio dell’abaco (ab. I.7 [I.3]). Non è un caso che in ab.
II.9 [II.3] sia menzionata la tabula dealbata in qua littere leviter deleantur, vale a dire come ha
chiarito lo storico della matematica Jens Høyrup una specie di lavagna (lawha) che si usava nel
Maghreb, realizzata ricoprendo di argilla bianca una tavola di legno, su cui la scrittura poteva essere
facilmente cancellata aggiungendo ulteriore argilla. In ab. XII.265 [XII.3.73] compare la prima
delle 54 occorrenze del termine arabo elchataym (Cum vero primus petat secundo, secundus tertio,
et tertius primo, invenies modum solutionis in quarta parte huius capituli, etiam et in secunda parte
elchataym), spiegato all’inizio del capitolo XIII (1): Incipit capitulum tertium decimum de regula
elchataym, qualiter per ipsam fere omnes questiones abbaci solvuntur. Elchataym quidem arabice,
latine duarum falsarum positionum regula interpretatur, per quas fere omnium questionum solutio
invenitur. Dall’arabo derivano inoltre termini come algebra, almuchabala o cata (equivalente al
latino sector e usato nella locuzione figura cata: ab. IX.11 [IX.3.2] Est enim hec talis compositio
proportionum ea que ostenditur in figura cata, scilicet sectoris, per quam Tholomeus docuit in
Almagesti reperire remotiones circulorum a circulo recto et multa alia), come pure nomi di moneta
(massamutinus) e di unità di misura (carruba: i semi dell’albero del carrubo si usavano per pesare),
mentre karatus ha origine dal greco κεράτιον keràtion, ma arriva in Occidente per il tramite
dell’arabo quirāt.
Numerosi sono i denominativi delle differenti unità di misura e di prezzo, alcune già in uso
presso i Romani (libra, uncia, pes, palmus, miliarium, passus, pes, modium, soldus, denarius
miliarensis — sebbene per indicare la moneta d’argento di tarda età imperiale si preferisse il neutro
miliarense), altre più recenti ma indicate con termini antichi (canna, rotulus) o riconducibili a
termini antichi (bizantius, dal primitivo nome di Costantinopoli Byzantium; tors(c)ellus diminutivo
di torsus, forma volgare di tortus, participio di torquere; cf. ant. fr. torcel), altre ancora del tutto
nuove (massamutinus, tarenus, sterlingus, marca, karatus, cantare, carruba, balla, petia, barilis
ecc.). Alcuni di questi sostantivi sono latinizzazione di parole tedesche (marca < marka), inglesi
(sterlingus < sterling), franche (balla < balle) o celtiche (pet(t)ia, ‘pezza’, da cui il sost. neutro
petium, ‘pezzo’), mentre l’etimo di barilis è incerto.
In molti casi le medesime unità di misura e di prezzo si usavano un po’ dovunque, ma il
rispettivo valore mutava di paese in paese. Occorreva dunque specificarne l’area geografica di
pertinenza con aggettivi come imperialis, pisaninus, ianuinus, turnensis, barcellonensis,
saracenatus vel yperperus ecc.: ab. VIII.11 [VIII.1.3] cantare pisanum habet in se centum
partes, quarum unaqueque vocatur rotulus; et rotuli habent uncias 12, quarum unaqueque ponderat
denarios ½ 39 de cantare, et denarius est carrube 6, et carruba est grana quattuor frumenti; VIII.
250 [VIII.3.1] canna pisana est palmorum 10, vel brachiorum 4; canna autem Ianue, ut dicunt, est
palmorum 9. Canna utique Provincie et Sicilie et Surie et Constantinopolis sunt unius mensure,
scilicet palmorum 8; VIII.269 [manca] Canna Surie vel Constantinopolitane venditur pro bizantiis
saracenatis vel yperperis ¼ 2 et queratur quantum valeant palmi ½ 3; VIII.275 [VIII.3.16] Si
6
torscellus, qui est canne 60 Provincie, hoc est de palmis 8, venditur pro libris 35...; IX.79-80
[IX.1.29] De baractis monetarum cum plures monete intersint. Imperiales 12 valent pisaninos 31, et
soldus ianuinorum valet pisaninos 23, et soldus turnensium valet ianuinos 13, et soldus
barcellonensium valet turnenses 11; queritur de imperialibus 15 quot barcellonenses valeant.
Secundum quidem vulgarem modum consideratur primum de imperialibus 15 quot pisaninos
valeant; valent enim pisaninos ¾ 38. Ex quibus consideratur quot ianuinos valeant; valent enim
ianuinos
5
/
23
20. Ex quibus consideratur quot turnenses valeant; valent enim turnenses
3
/
13
15
/
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18,
scilicet parum minus de turnensibus 18. Ex quibus etiam consideratur iterum quot barcellonenses
valeant; valent enim parum amplius de barcellonensibus 20, qui sunt pretium de imperialibus 15
prescriptis; XII.138 [XII.3.36] Primum quidem ponamus quod buctis teneat bariles quotlibet, ut
dicamus 48.
In Egitto l’unità di peso delle spezie era il fulfulī, una varietà del ral (lat. rotulus), la centesima
parte del inṭār (da cui lo sp. quintal e l’it. quintale, ma anche il lat. cantare o cantar(i)um o
cantarus e l’it. cantàro; cf. gr. κεντηνάριον kentenàrion). Assai diffuso era anche il djarwī, un
tipo di ral utilizzato in origine per pesare l’olio. In genere 1 inṭār fulfulī equivale a 144 libre
(quasi kg. 4,5), 1 inṭār djarwī a 312 libre (oltre kg. 9,5). Prendendo in prestito i due termini arabi
Leonardo e gli autori successivi parlano di rotuli (o di cantaria) forfori e gerovi (o geroui), oppure
aggiungono ai due sostantivi indeclinabili il suffisso latino -nus, -a, -um, coniando gli aggettivi
forforinus e gerovinus (ab. VIII.294 [VIII.4.7]): De rotulis gerovi ad forfori. Rursus si apud
Alexandriam de rotulis 347 gerovinis rotulos forforinos facere volueris, addiscas prius in qua
proportione sunt rotuli gerovini ad rotulos forforinos. Sunt enim in tali proportione, quod rotulus 1
gerovinus est rotuli
1
/
6
2 forforini: ergo rotuli 6 gerovini sunt rotuli 13 forfori.
In più punti Leonardo parla dei bizantii de Garbo (p. es. ab. VIII.94 [VIII.1.37]), della canna
Garbi (ab. VIII.266 [VIII.1.33]), di un cantare cuiuslibet mercis apud Garbum vendatur (ab.
VIII.95 [VIII.1.37]), di decena pannellorum vendita in Garbo (ab. VIII.98 [VIII.1.39]), di cantaria
carici in Garbo (ab. VIII.307 [VIII.4.12]) e di naves que honerantur in Garbo (ab. VIII.302
[VIII.4.11]). Nessun dubbio che Garbo sia una regione ben precisa, con i suoi porti mercantili,
come del resto sanno bene gli storici medievali, che ricordano la migrazione degli ebrei del Garbum
alla fine degli anni ’30 del sec. XIII a Palermo e in Sicilia, dove tra l’altro si specializzarono nella
tintura. Secondo studi recenti di Giuseppe Mandalà «la cancelleria sveva utilizza il termine
Garbum, erede della nozione arabo-islamica di Maġrib/Ġarb (al-aqà e al-awsa), per indicare i
territori dell’Africa nordoccidentale allora sotto l’influenza politica del califfato almoade», a ovest
quindi della Barbaría propriamente detta. Probabilmente dalla medesima regione provenivano anche
le merci (e le rispettive unità di misura) a cui si riferisce Leonardo.
Lo sviluppo del commercio su scala internazionale richiedeva un nuovo vocabolario economico:
paese che vai, moneta che trovi e di ciascuna moneta occorre stabilire l’equivalenza in metallo
prezioso (oro e argento) e, quindi, il cambio in una moneta diversa. Per questa nuova operazione
economica si conia il termine consolamen, dal verbo consolari (consolare), ‘compensare’, e il
suffisso -men (gen. -minis). L’intero capitolo XI del Liber abaci tratta de consolamine monetarum.
Un caso particolare è quello della moneta bolsonalia (o semplicemente bolsonalia), a cui non si
attribuisce altro valore se non quello dell’argento in esso contenuto e che dunque è acquistata per
essere fusa (ab. IX.88 [IX.2.1] Ille siquidem monete bolsonalie appellantur, que non emuntur nisi
quantum valet argentum quod est in ipsis, ut dissolutis ipsis in vase super ignem, alie monete inde
informentur). La parola, assai rara, ha origine longobarda (cf. tedesco Bolzen, ‘dardo’) e si
riconnette al punzone usato per imprimere le monete (o per segnarle mettendole fuori corso), detto
in antico francese bouson, in provenzale boujon, in antico spagnolo bozón e in italiano bolzone,
proprio come la macchina da guerra con testa di ariete per abbattere le mura nemiche, che infatti
nelle fonti latine medievali è chiamata bultio o bulzo, -onis.
Le merci possono essere vendute dietro pagamento in denaro sonante o permutate con altre
merci: la permuta consente a un mercante di non viaggiare mai privo di carico ed è all’origine del
moderno sistema di import-export. Nel IX capitolo Leonardo tratta dunque de baractis mercium:
7
l’etimologia dei neologismi baractum e baractare è incerta, tanto più che in alcuni testi medievali
barata e baratare hanno senso negativo, riferendosi agli inganni dei mercati.
Per trasferirsi con le merci da una località all’altra i mercatores si servono spesso di navi prese
ad naulum e pagano perciò a un nauclerius (il dominus navi) il corrispettivo per il viaggio e il
trasporto del carico: dal sostantivo naulum (cf. it. nolo), attestato nel latino classico (per es. Iuv.
8.97) e a sua volta prestito dal greco ναῦλον — nàulon (< ναῦς nàus, navis), con l’aggiunta del
suffisso denominale volgare -idiare (cf. gr. -ίζειν -ìzein), viene coniato il verbo naulegiare (cf.
it. noleggiare), attestato in ab. XII.158 [XII.3.41] De quatuor hominibus navem locantibus.
Quattuor homines naulegiaverunt navem ad honerandum de frumento.
Nella Lex Salica e nelle Leges Visigothorum (sec. VI d.C.) fa la sua comparsa il verbo carricare
(e la forma sincopata carcare), costruito su carrus con l’aggiunta del suffico -ico. Da car(r)icare
derivano i sostantivi car(r)icum e car(r)ica, che Leonardo usa con grafia scempia (cioè con una sola
c) rispettivamente per indicare il carico di una nave (ab. VIII.307 [VIII.4.13], XII.158-160
[XII.3.41]) e un quantitativo di merce, ancora una volta variabile a seconda dei paesi (VIII.77
[VIII.1.27] carica Provincie, VIII.79 [VIII.1.28] carica piperis, IX.18 [IX.1.6] e 25 [IX.1.8]).
Il testo di Fibonacci parla di monete e di misure, ma anche di mercanzie, di oggetti maneggiati e
di luoghi praticati dai commercianti del tempo. Il vocabolario della lingua quotidiana si evolve
costantemente introducendo nuovi termini ogni volta che se ne presenti la necessità. Gli antichi
Romani conducevano al pascolo (pabulum) gli animali, che mangiavano l’avena, termine atto a
designare propriamente una pianta della famiglia delle graminacee. Per indicare le messi mature
(messis indica genericamente il raccolto) usavano il plurale fruges (raro il sing. frux), caduto in
disuso probabilmente perché suonava troppo vicino a fructus. Perciò il latino medievale introdusse
blada (it. biada) dal francone blad, che ricorre 22 volte in ab. XI.149-175 [XI.7.7-7.12]. Da ab.
XI.149 [XI.7.7] sappiamo che nella denominazione di blad(a)e rientravano almeno frumentum,
milium, fab(a)e, (h)ordeum, lenticul(a)e.
La resina o gomma prodotta dal lentisco, un arbusto per cui era famosa l’isola di Chio (Isid. orig.
XIV.6.30 e XVII.7.51), nell’antichità latina era denominata mastiche (declinato alla greca: gen.
mastiches, acc. mastichen, abl. mastiche) o mastix (gen. masticis), con prestito dal greco µαστίχη
mastìche (dial. anche µάστιξ stix). Il Liber abbaci conosce sia la variante della terza
declinazione (IX.18 [IX.1.6] e 23 [IX.1.8]) sia la forma mastica (da mastiche, senza aspirazione e
declinato più semplicemente secondo la prima declinazione latina), usata nei titoli di IX.18 [IX.1.6]
De mastica ad piper e 23 [IX.1.8] De pipere ad masticam.
Per indicare il caprone (hircus) nel Medioevo si diffonde il termine beccus o bechus,
probabilmente derivato da ibex, ibicis (propr. la capra selvatica o stambecco). Ecco perché la pelle
ircina conciata finemente, come la bazzana, era chiamata bec(c)una: ab. VIII.303 [VIII.4.11] de
beccunis vero, quia sunt leviores coriis.
I prodotti importati dall’Oriente prendono la denominazione araba: non solo lo zucchero
(succarum < sukkar), che i Romani non conoscevano (ab. VIII.303 [VIII.4.11] de succaro ponunt
unum cantare pro duobus de coriis), ma anche lo zafferano (zaffaranum < za’farān), noto in
precedenza come crocus o crocum (< gr. κρόκος kròkos): ab. VIII.101 [VIII.1.41] Deinde pone
in questione quod uncie 12 zaffarani valent bizantios 3 et miliarenses ¼ 7. È invece incerto se la
pezza di fustagno (fustaneum: ab. VIII.273 [VIII.3.14] balla fustaneorum) derivi il suo nome dal
lat. fustis, come vogliono alcuni studiosi, perché si tratterebbe di una stoffa... legnosa, o piuttosto
dal mercato di al-Fustat, il nucleo originale di al-Qāhira (Il Cairo), a sua volta detto forse così dal
fossatum che in epoca romana circondava la fortezza sul Nilo.
In ab. XII.117 [XII.3.24] leggiamo: Rursus si proponatur quod ipse emisset ex suprascriptis
bizantiis 100 piper ad rationem de bizantiis 50, et lac ad rationem de bizantiis 40, et berzi ad
rationem de bizantiis 30, et linum ad rationem de bizantiis 20. Et ex pondere piperis esset
4
/
5
ex
pondere lacce et
6
/
7
ex pondere berzi et
8
/
9
ex pondere lini. Il sostantivo indeclinabile berzi è un
prestito dall’arabo warsī, usato per indicare la brasilina (brazilin), una tintura rossa assai diffusa nel
Medioevo, ricavata dal legno di una pianta indiana (la caesalpinia sappan). A comperarla è un
8
giovane mercante mandato dal padre ad Alessandria (cf. ab. XII.110 [XII.3.24] De eo qui misit
filium suum in Alexandriam). Tutto induce a credere perciò che la quarta merce acquistata insieme
al berzi, al piper e al linum, non sia il latte (lac, lactis), ma la lacca, come del resto lasciano
intendere il genitivo lacce (che ricorre anche più avanti, al § 118 [XII.3.27]) e l’ablativo lacca (117
[XII.3.27] Quare pones ut ipse emeret ex pipere cantaria 36 que valent bizantios 1800, et de lacca
cantaria 30 que valent bizantios 1200, et de berzi cantaria 28 que valent bizantios 840, et de lino
cantaria 27 que valent bizantios 540). Resta da stabilire se siamo in presenza di un sostantivo a
declinazione mista (nom. e acc. lac, gen. lacce, abl. lacca) o se piuttosto nell’enunciato del
problema non si debba correggere laccam›.
Tra i neologismi si annoverano anche i nomi di alcuni contenitori: buttis o buctis (ab. XII.137
[XII.3.36] buctis habens quattuor foramina unum super aliud) è attestato per la prima volta in un
papiro dell’anno 564 (Pap. Marini 80), mentre tasca (sinonimo di sacculus), dall’ant. altotedesco
taska, compare soltanto nel latino medievale: ab. XII.1264-1266 [XII.9.6-9.7] De septem vetulis
que ibant Romam. Septem vetule vadunt Romam; quarum quelibet habet burdones 7, et in quolibet
burdone sunt sacculi 7, et in quolibet sacculo panes 7, et quilibet panis habet cultellos 7, et quilibet
cultellus habet vaginas 7. Queritur summa omnium predictorum. Primum quidem multiplica
numerum vetularum, scilicet 7, per numerum burdonorum, scilicet per 7; erunt burdones 49, quos
multiplica per numerum tascarum, scilicet per 7; erunt tasche 343, quas multiplica per numerum
panum unius tasche, scilicet per 7; erunt panes 2401, quos multiplica per numerum cultellorum
unius panis, scilicet per 7; erunt cultelli 16807, quos multiplica per numerum vaginarum unius
cultelli, scilicet per 7; erunt vagine 117649, quibus iunctis cum cultellis 16807 et cum panibus 2401
et cum sacculis 343 et cum burdonibus 49 et cum vetulis 7 erunt in summa 137256, ut in
descriptione ostenditur (dove ricorre anche burdo, sinonimo tardoantico di mulus usato nel Digesto,
nell’editto di Diocleziano del 301 d.C., nella Vulgata e in Isidoro di Siviglia).
III. SISTEMA NOMINALE E VERBALE
Generi, numeri e casi sono per lo più trattati da Leonardo secondo l’uso tradizionale, ma non
mancano oscillazioni: anzitutto riguardo ai numerali cardinali superiori all’unità, solitamente plurali
neutri, come nel latino classico, ma forse solo dopo un ripensamento dell’autore, che in un primo
tempo sembra declinarli al maschile in conformità all’uso volgare (così all’epoca della prima
redazione del Liber abbaci, di cui sopravvive il capitolo XII nel manoscritto Firenze, Biblioteca
Medicea Laurenziana, Gaddi 36): ab. XI.160 [XII.7.8] fac societatem de ²/
5
6 et de ³/
5
6, qui faciunt
7. Come in età classica le frazioni sono invece femminili, trattandosi di partes (femm.) di numeri
interi. In Leonardo ¹/
4
corrisponde a quarta (scil. pars), ²/
5
a due quinte (scil. partes); per ½ sono
invece attestate sia le grafie femminili medietas e, meno spesso, dimidia, sia il neutro dimidium,
mentre sono rari gli esempi di semis, semissis (ab. V.76-77 [V.35] e XV.295 [XV.3.36]; qualche
occorrenza anche nella Pratica geometrie).
Le fonti tardoantiche e altomedievali «permettono di constatare l’inizio della scomparsa del
neutro, che viene generalmente sostituito dal maschile» (Dag Norberg): miliarense, s’è visto,
diventa miliarensis. Come al solito, ad azione corrisponde reazione: il maschile modius diviene
modium già nei tardi gromatici ed è neutro anche in Leonardo (p. es. ab. IX.149 [IX.3.10] Homines
5 comedunt modia 4 frumenti in uno mense).
Di uno statuto a stante gode il nome della città di Constantinopolis. Accanto al genitivo
Constantinopolis (ab. VIII.250 [VIII.3.1] Canna itaque Provincie et Sicilie et Surie et
Constantinopolis sunt unius mensure, scilicet palmorum 8), l’unica altra forma tramandata
unanimemente dalla tradizione manoscritta è Constantinopolim, che assolve la funzione di
accusativo (ab. VIII.107 [VIII.1.44] Miliarium olei apud Constantinopolim; XII.193 [XII.3.55]
Questio de eadem re nobis apud Constantinopolim a quodam magistro proposita; con o senza
preposizione in dipendenza da verbi di movimento: ab. XII.298 [XII.3.81] De homine qui ad
vendendas tres margaritas Constantinopolim properavit. Quidam mercator duxit Constantinopolim
tres margaritas ad vendendum; XII.935 [XII.7.2] De mercatore deferente lapides pretiosos
9
Constantinopolim. Mercator quidam deferens lapides pretiosos quinque equali pretio in
Constantinopolim ad vendendum, erat primo transiturus per commercia tres), ablativo (XII.915
[XII.6.57] De duobus hominibus qui habuerunt societatem in Constantinopolim. Duo homines
pariter in Constantinopolim habuerunt insimul societatem) e locativo (compl. di stato in luogo: ab.
XI.149 [XI.7.7] Quidam emit Constantinopolim modia 90; XII.915 [XII.6.57] Alius qui remanserat
Constantinopolim lucrabatur; XII.917 [XII.6.58]; XII.925-926 [XII.6.59]; XII.930 [XII.6.59]).
Anche la morfologia verbale è per lo più quella classica, ma nella diatesi passiva (e quindi anche
nei verbi deponenti) le forme perifrastiche del sistema del perfetto (indicativo e congiuntivo perfetto
e piuccheperfetto, indicativo futuro anteriore) sono ormai costruite con le rispettive forme perfettive
dell’ausiliare esse: ab. II.5 [II.2] et tunc cum fuerit discipulus habitudinem consecutus, gradatim
poterit ad perfectionem huius facile pervenire; II.17 [II.5] de qua divisione remanet 1 sicut remansit
ex 10 que procreata fuerunt ex addictione 3 et 7 cum ex eis extracta fuerunt 9; V.2 [V.2] Cum super
quemlibet numerum quedam virgula protracta fuerit et super ipsam quilibet alius numerus
descriptus fuerit, superior numerus partem vel partes inferioris numeri affirmat.
Non mancano del resto i casi in cui si registra una certa confusione tra il futuro semplice e il
futuro anteriore di esse (ab. II.72 [II.37] Et cum quattuor numeri sunt proportionales fueritque [=
eritque?] sicut primus ad secundum ita tertius ad quartum, tunc multiplicatio primi in quartum equa
est multiplicationi secundi in tertium) oppure tra i tempi del congiuntivo (V.163 [V.175] tale
tradimus magisterium, ut consideret si divisor numerus prope fuerit alicui numero centenario, sive
plus, sive minus sit eo).
La tendenza del latino tardoantico e medievale a trasformare i verbi deponenti in attivi si
manifesta nel verbo consolare (da cui il citato neologismo consolamen), già occasionalmente
attestato in epoca classica e tuttavia assai meno diffuso di consolari (< cum + solari): ab. XI.1-2
[XI.1.1] Moneta consolari dicitur quando ponitur in libra ipsius aliqua data argenti quantitas. Et
cum dicimus: habeo monetam ad uncias quantaslibet, ut dicamus ad 2, intelligimus quod in libra
ipsius monete habeantur uncie 2 argenti. Consolatur enim moneta tribus modis. Primus modus est
quando consolatur ex data quantitate argenti vel eris, secundus cum consolatur ex quibuslibet datis
monetis cum argenti vel eris vel utriusque additione, tertius quando tantum ex datis monetis
consolatur.
Qualche oscillazione tradisce l’uso dei casi in dipendenza dalle proposizioni: ab. V.148 [V.70]
multiplicata in prescriptum divisorem numerum; V.150 [V.70] multiplicata in divisori numero.
Vero è però che entrambe le costruzioni multiplicare aliquid in aliquid e multiplicare aliquid in
aliqua re — ricorrono in età tardoantica: cf. gli esempi riportati in Thesaurus linguae Latinae, VIII,
col. 1598.18 sgg., e in partic. Cassiod. inst. II.4.6 hic circulus dum in se ipsum multiplicatus fuerit,
facit spheram, e Hesych. in lev. 8.33 (PG XCIII, col. 887B) septenario numero in semetipso
multiplicato.
Accusativo e ablativo appaiono similmente interscambiabili in dipendenza dalle proposizioni sub
e super (supra), ma anche per esse non è possibile stabilire rigide norme neppure per l’epoca
classica (in genere sub è accompagnato dall’accusativo in concomitanza con verbi di moto e
dall’ablativo in concomitanza con verbi di stato, ma non mancano le eccezioni: Liv. III.28.9 sub hoc
iugo dictator Aequos misit).
La costruzione del verbo transitivo multiplico con in + acc. o abl. del moltiplicatore non è l’unica
adottata da Leonardo. In alternativa troviamo la costruzione con per + acc. (attestata a partire dal
sec. III d.C.): ab. VII.77 [VII.4.2] erunt 356773, que multiplicabis per 39443. Con il verbo dividere
il divisore è generalmente espresso da per + acc.: ab. XII.251 [XII.3.70] divide summam per 17,
mentre in età classica si sarebbe detto preferibilmente in septendecim. Anche la costruzione con in
+ acc. non manca tuttavia di qualche sporadico esempio nel Liber abbaci: XI.160 [XI.7.8] Et iterum
divides in eadem 7 multiplicationem de
3
/
5
in 50.
Multiplicatio de
3
/
5
in 50: l’espressione è chiaramente influenzata dal volgare, giacché de + abl.
si sostituisce al genitivo (cf. ab. XII.35 [XII.2.5] multiplicatio primi numeri in quartum). Tale
costruzione aveva comunque il pregio della chiarezza quando si trattasse di esprimere
10
un’operazione compiuta con un sostantivo indeclinabile, come sono per lo più i numeri cardinali:
radix de quattuor (p. es. ab. XIV.51 [XIV.2.4]), cubus de duodecim (ab. XIV.238 [XIV.5.2]),
multiplicatio de triginta octo in triginta novem (ab. XIV.275 [XIV.5.9]). A dire la verità però,
accanto a multiplicanda est illa multiplicatio, scilicet de 413 in 90, per 20 (ab. XI.168 [XI.7.11]),
Leonardo usa spesso anche il numerale senza preposizione: ab. XI.170 [XI.7.11] remanebit ut
dividatur tantum in
1 0 0
/
8 9 13
multiplicatio 413; XIV. 100 [XIV.3.5] remanebunt 23 minus radice
448. Del resto luoghi come ab. VII.20 [VII.2.1] adde cum quarta de eisdem 420 anziché cum
quarta (scil. parte) eorumdem 420 tradiscono l’influsso del volgare, in cui il genitivo era stato
ormai sostituito da complementi preposizionali con de (di in italiano; de in francese, portoghese e
spagnolo nonché nella proposizione articolata it. dello, della < de illo, de illa). Lo stesso fenomeno
si riscontra in ab. VIII.152 [VIII.1.63] Item ut intelligatur melius, rotuli
1 4
/
2 7
14 de Messana valent
tarenos
1
/
9
2
/
5
7, et quantum valent rotuli
1
/
7
3
/
4
17 de Pisis queratur (ma subito dopo: Primum
querendum est de rotulo Messane quot rotulos pisanos ponderet).
Tra le molte funzioni assunte dalla preposizione de seguita dall’ablativo vi è quella di esprimere
il secondo termine di paragone: p. es. ab. XI.124 [XI.6.17] moneta que non sit maior de unciis ½ 2,
sebbene il medesimo ufficio continuino ad assolvere anche quam + caso del primo termine (ab.
VIII.303 [VIII.4.11] cum in ipsis ponderentur diverse merces graviores et leviores quam coria;
XIII.284 [XIII.3.26] primus petit ei
1
/
12
plus quam secundus) e l’ablativo semplice (ab. VII.181
[VIII.1.76] que partes pulcriores sunt suprascriptis partibus).
Anche i verbi transitivi addere e iungere (adiungere) risultano specializzati in senso aritmetico
(‘addizionare’, ‘sommare’) e sono entrambi costruiti con l’ablativo della cosa incrementata
preceduto da cum: ab. II.10 [II.3] erunt 2, que addat cum duobus superius servatis; VII. 103
[VII.4.14] iunge 15 cum 322, erunt 337. Si tratta di una costruzione che in età classica è attestata
solo per iungere (cf. p. es. Cic. inv. I.105 cum iniuria contumelia iuncta), non per addere, a cui in
genere si accompagnava il dativo di termine o ad + acc. (addere/iungere aliquid alicui rei o
addere/iungere aliquid ad aliquid).
Il verbo vendere e in generale i verbi estimativi, che implicano un valore commerciale,
richiedono classicamente l’ablativo del prezzo: cum te trecentis talentis regi Cotyi vendidisses (Cic.
Pis. 84). All’epoca di Leonardo, tuttavia, l’incertezza nell’uso dei casi e la preferenza per sintagmi
preposizionali hanno ormai imposto la costruzione vendere aliquid pro aliqua re: ab. VIII.19
[VIII.1.5] cantare venditur pro libris 13; VIII.72 [VIII.1.24] Pondus casei, quod pensat centenaria
22, hoc est libras 2200, venditur pro libris 24.
IV. SINTASSI DEL PERIODO
L’evoluzione della lingua risulta più evidente nella sintassi della frase. In dipendenza da verba
dicendi e sentiendi, accanto alle infinitive oggettive, sono abituali nel Liber abbaci le dichiarative
introdotte da quod o quia (assai diffuse già nel sec. IV d.C. anche nella lingua letteraria), talora
costruite con il congiuntivo: ab. II.78 [II.39] Et notandum quia sicut primus gradus est ad
secundum ita penultimus est ad ultimum; VI.25 [VI.1.11] Et scias quia 5 que sunt sub virgula
divisionis post 4, cum super ipsa sit 0, nichil representant; VI.55 [VI.3.2] Et notandum quod multe
fractiones que sunt sub diversis virgis possunt reduci ad unam virgam; VIII.249 [VIII.2.36] Et scias
quia per hanc materiam potes cognoscere quantum argentum purum fuerit in qualibet quantitate
cuiuslibet bolsonalie; XI.1 [XI.1.1] intelligimus quod in libra ipsius monete habeantur uncie 2
argenti; XII.37 [XII.2.7] Et scias quod talis proportio proportionalitas appellatur; XV.226
[XV.3.14] tu scis quia ex ipsa divisione provenit
1
/
2
1. In particolare la formula dico quod ricorre
nel Liber abbaci sedici volte (tre volte nel libro XIV e tredici nel XV) a conclusione dell’enunciato
(‘diorisma’): p. es. XIV.89 [XIV.3.3] Dico quod tota DI est binomium primum. Nella Pratica
geometrie compare anche la formula, meno elegante, dico quoniam (p. es. nella distinctio II: Dico
quoniam Z radix est sexcentorum ecc.). La medesima costruzione s’accompagna qualche volta al
verbo velle: ab. XII.1138 [XII.7.62] Ut si vis quod primus homo vendiderit pomum unum in primo
foro, extrahe ipsum de 6. La congiunzione quod conserva invece funzione epesegetica in ab. IX.8
11
[IX.1.3] Hoc est quod in hac questione dico, quod proportio brachiorum panni ad rotulos cotonis
componitur ex proportione quam habet 20 ad 3 et 5 ad 42.
La legge dell’anteriorità è spesso rispettata (cf. p. es. ab. V.53 [V.22] ita cum diviserimus per 23,
accipiemus medietatem), e volentieri anche abusata: ab. II.24 [II.10] Cum autem volueris
multiplicare aliquem numerum de secundo gradu in se non habentem unitates, scilicet in primo
gradu, ut in 10 et 40 vel 90, in quorum capitibus zephyrum semper esse necesse est, sic erit
faciendum...; II.57 [II.28] Cum autem quattuor figuras contra quattuor quis multiplicare voluerit,
describat numeros; III.1 [III.1] Cum autem quoslibet numeros et quotcumque quis addere voluerit,
collocet eos in tabula; VI.1 [VI.1.1] Cum autem quemlibet numerum cuiuslibet gradus cum quolibet
rupto vel ruptis per quemlibet numerum cum quolibet rupto vel ruptis multiplicare volueris,
describe maiorem numerum cum suo rupto vel ruptis sub minori numero cum suis minutis.
Il cum temporale con l’indicativo è talora sostituito al cum narrativo con il congiuntivo: ab. II.18
[II.7] cum aliquis numerus dividitur in partes et unaqueque partium multiplicatur per aliquem
numerum, sunt ille multiplicationes in unum collecte equales multiplicationi totius numeri divisi in
numerum in quem multiplicate fuerunt omnes partes ipsius; VII.42 [VII.2.9] sed debes eam dividere
per alios ruptos, cum per ipsos multiplicasti; VIII.8 [VIII.1.2] Et cum ita quattuor quantitates
proportionales sunt, erit multiplicatio secunde in tertiam equa multiplicationi prime in quartam, ut
in arismetricis et in geometria probatum est.
Quando è introdotta dalla congiunzione ut la proposizione consecutiva è regolarmente costruita
con il congiuntivo. Ma in ab. II.72 [II.37] Nam cum tres numeri proportionales sunt, ita quod sicut
primus est ad secundum ita secundus sit ad tertium, tunc multiplicatio primi in tertium equatur
multiplicationi secundi in se, la consecutiva risulta introdotta da (ita) quod, parimenti seguito dal
congiuntivo (secundus sit ad tertium), sebbene nell’enunciato correlativo (sicut primus est ad
secundum ita...) ricorra l’indicativo. Nei capitoli XII-XV del Liber abbaci si contano altri tredici
esempi di ita quod consecutivo, sei volte con il congiuntivo (ab. XII.54 [XII.2.6] Quare pones 3 et
4 in unam lineam et 5 et 6 in aliam, ita quod 5 sint super 4; XII.122 [XII.3.29] Item si 10 in
quattuor partes dividere volueris, ita quod multiplicata prima in quartam faciat quantum secunda
in tertiam, et rursus...; XII.339[XII.3.95]; XII.1110 [XII.7.57]; XII.1135 [XII.7.62]; XV.435
[XV.3.90] Et notandum quod si radices D, E sibi invicem commensurabiles essent, ita quod
proportio quadrati radicis D ad quadratum radicis E esset sicut proportio quadrati numeri ad
quadratum numerum, essent itaque numeri A, B sibi invicem commensurabiles), sette con
l’indicativo (XII.584 [XII.5.24] quia 34 unius bizantii suprascripti dividuntur per 3, ita quod non
frangitur aliqua ex ipsis tribus quartis, invenias numerum quorum 45 dividantur integraliter per 3;
XII.1131 [XII.7.61] Quidam dabat cuidam pro suo opere cotidie marcam 1 argenti, quam
persolvebat cum sciphis quinque quos habebat, ita quod non frangebatur aliquis eorum; XII.1260
[XII.9.5]; XII.1319 [XII.9.19]; XIII.55 [XIII.2.3]; XV.78 [XV.1.12]; XV.140 [XV.2.12] Quidam
habens bizantios, cum quibus lucratus est in quodam foro, ita quod inter capitale et proficuum
habuit bizantios 80). Così avviene anche nella Pratica geometrie (dist. III): Et si campus in monte
positus habuerit formam superficiei alicuius portionum columpne, ita quod apparens superficies sit
gimbosa..., ecc.
Ci siamo già imbattuti nella frase di ab. V.163 [V.75] tale tradimus magisterium, ut consideret si
divisor numerus prope fuerit alicui numero centenario, sive plus, sive minus sit eo. È ora opportuno
osservare che siamo in presenza di una completiva epesegetica (dipendente da tale ... magisterium)
classicamente introdotta da ut, seguita a sua volta da un’interrogativa indiretta (dipendente,
appunto, da consideret), che però è introdotta da si (si divisor numerus...) anziché da num. Si tratta
di uno slittamento semantico iniziato assai per tempo ed ereditato dalla congiunzione italiana se,
utilizzata per introdurre tanto la protasi di un periodo ipotetico, quanto l’interrogativa indiretta. Gli
esempi nel Liber abbaci sono frequenti: si veda p. es. ab. II.22 [II.9] Modo videamus si hec
multiplicatio recta est.
Conformemente a una tendenza manifestatasi dalla fine dell’età imperiale, l’infinito ricorre in
combinazioni sconosciute in epoca più antica, per esempio con il verbo facere: ab. I.7 [I.3] genitor
12
meus ... me in pueritia mea ad se venire faciens... Sebbene Leonardo usi spesso la perifrastica
passiva, sono assai frequenti anche le circonlocuzioni con l’infinito dipendente da debere (ab. VI.8
[VI. 1.6] et sic debes facere de omnibus numeris). I verbi servili sono inoltre utilizzati per rafforzare
la nozione del congiuntivo nelle proposizioni subordinate: p. es. in ab. VII.138 [VII.6.1] plures
partes unius numeri in singulas partes disgregare docemus, ut intelligibilius rupti cuiuslibet virgule
que pars vel partes sint unius integri cognoscere valeas e in ab. IX.30 [IX.1.10] super carrubas
pone carrubas, ut possis cognoscere cuius qualitatis sit summa futura il verbo servile è pleonastico
(= ut cognoscere valeas/possis = ut cognoscas).
La subordinata espressa con l’ablativo del participio presente o passato (ablativo assoluto)
presenta spesso stretti legami con la reggente (ab. IX.5 [IX.1.2] Et descriptis itaque ipsis quinque
numeris, tunc ultimum eorum per numerum pretii ei oppositi multiplica; XII.991 [XII.7.28] et
transeunte quodam milite invitaverunt eum, qui descendit et comedit pariter cum eis) o è costruita
con il pronome relativo: frequenti p. es. frasi come ab. II.12 [II.4] erunt 42, quibus additis cum 4
superius servatis erunt 46.
Come si è accennato, il gerundivo ricorre nella perifrastica passiva (ab. XI.38 [XI.3.2] Que sic
facienda sunt), oltre a essere usato in funzione attributiva (ab. VI.53 [VI.3.1] Et quia comunicatio
est inter numerum dividendum et dividentem, hoc est inter numeros multiplicantes et numeros qui
sunt sub virga, debes imitari modum evitationis supradictum; XI.77 [XI.6.5] de moneta fienda). In
caso accusativo preceduto da ad ricorre inoltre nell’enunciato finale (ab. V.153 [V.71] Ad
habendum itaque arbitrium in ponendis figuris in exeuntibus numeris ... tale tradimus magisterium;
XII 298 [XII.3.81] De homine qui ad vendendas tres margaritas Constantinopolim properavit),
dove tuttavia, anche in presenza di un complemento oggetto, prevale l’uso del gerundio (ab. IX.24
[IX.1.8] et servabis 12 que remanent de ipsis 24 ad ponendum ea in capite virgule propter uncias;
XI.79 [XI.6.5] cum equaliter iunxisti eas ad faciendum ex eis unam monetam; XI.85 [XI.6.7]
Deinde ad faciendum libras 20 pones in eis primam consolationem semel aut bis aut pluries).
Spesso ad + acc. del gerundio assume anzi un valore consecutivo, simile a quello che in italiano ha
l’infinito preceduto dalla preposizione da: ab. VIII.75 [VIII.1.25] exibunt soldi 16 et remanent soldi
9 et denarii 6 ad dividendum in 11; IX.66 [IX.1.25] mirantur quomodo remanent ad persolvendum
soldi 3; XII 298 [XII.3.81] Quidam mercator duxit Constantinopolim tres margaritas ad
vendendum.
All’ablativo, infine, il gerundio rimpiazza spesso il participio presente congiunto finendo per
assumerne in tutto e per tutto il valore di concomitanza come avviene nel gerundio romanzo: ab. I.4
[I.2] Verum in alio libro quem de pratica geometrie composui, ea que ad geometriam pertinent et
alia plura copiosius explicavi, singula figuris et probationibus geometricis demonstrando; V.47
[V.19] De divisione numerorum cordetenus in manibus per eosdem numeros. Verum si materia
consimilium divisionum cordetenus in manibus operari voluerit, retineat numerum in manibus
quem dividere voluerit, et eat semper per manus gradatim dividendo, incipiendo ab ultima figura,
ponens semper in manibus numeros ex divisione exeuntes, superflua semper cordetenus retinendo et
numerum dividendum gradatim de manibus delendo; XV.179 [XV.2.26] Nam ipsa erit portio quam
primus ex ipsis lineis a puncta inferius descendendo depinxit.
V. STILE
Quando ci si imbatte in frasi come ab. II.5 [II.2] Cum autem vis multiplicare aliquem numerum
secundi gradus per aliquem numerum eiusdem gradus, sive equales sint numeri sive inequales,
scribes numerum sub numero ita ut similis gradus sit sub simili gradu, et si numeri sunt inequales
sit maior sub minore, è difficile stabilire se ci si trovi davanti a un uso improprio del cum temporale
(cum ... vis = cum velis) o a un futuro con valore iussivo (scribes = scribe). Quest’uso
dell’indicativo futuro è assai frequente nel Liber abbaci. Vd. p. es. ab. VI.26 [VI.1.12] exibunt 13,
que multiplica per 137, et divides per 4 de alia virgula: exibunt similiter ¼ 445.
Spesso indicativo futuro, imperativo e congiuntivo esortativo (iussivo) si alternano senza
sostanziali differenze di significato. Si esamini con attenzione ab. IX.2-5 [IX.1.2]: Regula
13
universalis in baractis mercium. Cum autem volueris quamlibet mercem cum qualibet alia merce
cambiare, hoc est baractare, addiscas pretium uniuscuiusque mercis, quod pretium semper debet
esse unius monete. Et describas illarum mercium unam in capite tabule et pretium illius mercis
scribas in tabula retro versus sinistram in eadem lineatione, sicuti in negotiationibus in antecedenti
capitulo describere docuimus. Deinde sub pretio illius mercis in aliam lineam describes pretium
alterius mercis et retro describes mercem illius pretii. Et si merces quam ad aliam mercem
baractare volueris fuerit ex superiori merce, de prima videlicet prescripta in tabula, pones
quantitatem illius mercis quam habueris sub eadem merce. Et si fuerit ex alia merce, describe
quantitatem illius super ipsam mercem; ut sicuti modo diximus describendum esse pretium unius
mercis sub pretio alterius, ita describantur similes merces sub simili merce. Et descriptis itaque
ipsis quinque numeris, tunc ultimum eorum per numerum pretii ei oppositi multiplica, et quot inde
provenerit in alium numerum eidem pretio oppositum ducere studeas; quorum numerorum summam
per reliquos duos numeros divide, et habebis optatum. Il passo presenta ripetuti e bruschi passaggi
dal congiuntivo iussivo (addiscas, describas, scribas) all’indicativo futuro (describes, describes,
pones) e poi all’imperativo (describe) e ancora dalla seconda persona singolare alla terza plurale
passiva (ut ... describantur), per poi tornare alla seconda persona dell’imperativo (multiplica), di
nuovo al congiuntivo iussivo (studeas), ancora all’imperativo (divide) e terminare con l’indicativo
futuro (habebis).
Tornando ad ab. II.5-8 [II.2] osserveremo un’altra particolarità. Leonardo ha impostato il
problema coniugando i verbi alla seconda persona singolare (tu impersonale o generico: Cum autem
vis multiplicare ..., scribes numerum...), ma svolge la dimostrazione alla terza persona singolare,
come se il soggetto fosse ‘un tale’ (cf. p. es. II.57 [II.28] Cum autem ... quis multiplicare voluerit,
describat...): ... et si numeri sunt inequales sit maior sub minore. et incipiat multiplicationem a
primo gradu numerorum in tabula prescriptorum. Siquidem multiplicet figuram primi gradus
superioris numeri in tabula prescripti per figuram primi gradus subterioris, et scribantur unitates
super primum gradum numerorum prescriptorum (si noti il passaggio alla terza persona plurale
passiva), et per unamquamque decenam retineat in manu sinistra unum (di nuovo la terza persona
singolare attiva). Deinde multiplicet figuram primi gradus superioris numeri per figuram secundi
gradus, scilicet per ultimam subterioris numeri, et econtra figura primi gradus subterioris
multiplicetur per ultimam figuram superioris (si torna al passivo), et addantur in manu cum servatis
decenis; et iterum unitates scribantur super secundum gradum, et retineantur in manu decene. Item
multiplicetur ultima figura superioris numeri per ultimam subterioris, et quod ex multiplicatione
evenerit cum servatis decenis in manu superaddatur, et unitates in tertio gradu et decene si fuerint
in quarto ponantur, et habebitur multiplicatio quorumlibet numerorum a decem usque in centum.
In tali descrizioni delle operazioni di calcolo, con l’alternanza dell’indicativo presente con
l’indicativo futuro, del congiuntivo esortativo con imperativo, dell’attivo con il passivo e della
seconda persona singolare con la terza, sembra di essere davanti a un professore che dimostri un
teorema alla lavagna e sorge addirittura il sospetto che Leonardo non scriva in prima persona, ma
detti il testo a uno scriba.