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suo fondamentale Liber abaci, pubblicato nel 1202 (che dette un contributo essenziale
alla diffusione in Europa della numerazione posizionale con le cifre arabe) è scritto in
latino; Leonardo aveva però scritto anche un’opera perduta in volgare (ovviamente
toscano): il Trattato di minor guisa (probabilmente una versione ridotta e semplificata
dell’opera principale). Sappiamo che Fibonacci si dedicò anche all’insegnamento,
iniziando la tradizione delle scuole d’abaco; il Comune di Pisa infatti nel 1241 gli assegnò
un salario annuo per i servizi da lui resi in materia
.
Dalla seconda metà del Duecento in poi le scuole d’abaco si moltiplicarono, prima in
Toscana e poi diffondendosi via via nelle altre regioni italiane.
Maestri e manuali d’abaco contribuirono a esportare forme linguistiche toscane tra i
ceti semicolti di altre regioni, in particolare negli ambienti mercantili? Credo che
l’argomento meriti uno studio approfondito, ma l’impressione che le scuole d’abaco
abbiano costituito uno dei canali di diffusione di una forma di italiano semplice tra
persone con modesta cultura letteraria è suggerita da vari elementi.
La storica della lingua Paola Manni, descrivendo la distribuzione geografica dei
manuali d’abaco, scrive:
A parte il primo libro d’abaco che si conosce, che è umbro, i libri d’abaco più antichi,
quelli trecenteschi, sono in assoluta maggioranza toscani, con qualche significativa
presenza veneta; mentre successivamente, nel corso del Quattrocento, l’orizzonte si
allarga coinvolgendo soprattutto (ma non solo) l’Italia settentrionale, dove primeggia
ancora il Veneto.
Il più antico manuale d’abaco noto è in effetti il Livero de l’abbecho di un anonimo
maestro umbro, risalente alla fine del XIII secolo
, nel cui incipit si riconosce come
modello l’opera di Leonardo Fibonacci: Quisto ène lo livero de l’abbecho secondo la
oppenione de maiestro Leonardo de la chasa degli figluogle Bonaçie da Pisa. Già in
quest’opera la lingua, pur essendo umbra, sembra in qualche caso influenzata dal modello
pisano. Vista l’assoluta preponderanza di manuali toscani, è presumibile che tali manuali
fossero usati anche in molte delle scuole d’abaco sorte nelle altre regioni d’Italia, e poiché
vari esempi suggeriscono che fosse abbastanza diffuso l’uso di chiamare a insegnarvi
maestri provenienti dalla Toscana
, si può ragionevolmente congetturare che il toscano
La delibera dei magistrati pisani è riportata a p. 124 in Elisabetta Ulivi, Scuole e maestri d’abaco in Italia
tra medioevo e Rinascimento, in Enrico Giusti (a cura di), Un ponte sul Mediterraneo. Leonardo Pisano,
la scienza araba e la rinascita della matematica in Occidente, Firenze 2002, Edizioni Polistampa, pp. 121-
159.
Paola Manni, La matematica in volgare nel Medioevo (con particolare riguardo al linguaggio
algebrico), in R. Gualdo (a cura di), Le parole della scienza. Scritture tecniche e scientifiche in volgare
(secoli XIII-XIV), Atti del Convegno (Lecce, 16-18 aprile 1999), Galatina 2001, Congedo Editore, pp. 127-
152, 128.
Gino Arrighi, Maestro umbro (sec. XIII), Livero de l'abbecho. Codice 2404 della Biblioteca Riccardiana
di Firenze, in «Bollettino della deputazione di Storia patria per l'Umbria», 86 (1989), pp. 5-140
Elisabetta Ulivi, nell’opera già citata, elenca molti maestri d’abaco noti. Limitandoci alle scuole al di
fuori della Toscana, ricorda: a Bologna tre maestri di provenienza non nota e il maestro fiorentino Antonio
Bonini Biliotti; a Perugia l’autore umbro del libro già citato; a Verona Lotto da Firenze, Biagio da Prato,
Simone de’ Rossi da Pisa, Marco Boninsegna da Pisa, un maestro Baldassarre veronese e Niccolò Tartaglia
(sul quale torneremo); a Savona Nello da Pisa e Daniele da Pisa; a Genova tre pisani (Tommaso di Miniato,
Tommaso di Bonaccio e Giacomo), il fiorentino Pietro di Lapo e altri tre maestri di provenienza non nota;