“Anticipiamo qui, per gentile concessione
dell'Accademia della Crusca,
la pubblicazione del contributo di Lucio Russo,
presentato nella
Piazza delle Lingue 2018_, che apparirà negli Atti,
in corso di stampa presso l'Accademia.”
‘scuola d’abaco’
1
Le scuole d'abaco come possibile strumento di
diffusione dell'italiano
Lucio Russo
La lingua italiana coincide in larga misura con il toscano, e più precisamente con il
fiorentino, che si è imposto a livello nazionale prevalendo su tutti gli altri volgari parlati
nella penisola.
Due questioni centrali nella storia della nostra lingua sono:
Per quali ragioni ha prevalso il toscano?
In che misura la lingua italiana, nel corso della storia, è stata usata nelle regioni diverse
dalla Toscana?
La risposta usuale alla prima domanda è espressa con chiarezza da Tullio De Mauro:
Fra il Trecento e il Cinquecento anche in Italia si ebbe una lingua nazionale: il
toscano, o più esattamente il fiorentino. Ma all’origine della fortuna del toscano vi furono
soltanto (sottolineatura mia) il prestigio letterario conferito ad esso dai tre grandi
trecentisti e la conferma di tale prestigio avutasi nel Cinquecento grazie al petrarchismo
e all’opera dei grammatici.
1
Vi è ovviamente una stretta relazione tra le risposte alle due domande: se il toscano si
è imposto soltanto per l’eccellenza della sua alta letteratura, è naturale che si sia imposto
solo come lingua letteraria, mentre i non letterati continuavano a parlare i loro dialetti. Lo
stesso De Mauro continua infatti scrivendo:
Anche se non va trascurata l’influenza che le necessità del commercio ebbero nel
tenere in vita forme interregionali di italiano (l’italiano “itinerario” di cui parlava il
Foscolo), l’esistenza dell’italiano comune attraverso tre secoli fu, fuori della Toscana,
essenzialmente garantita dall’uso che di generazione in generazione continuarono a
farne i letterati e i dotti, con l’unica eccezione di Roma.
2
E poco dopo (dimenticando apparentemente egli stesso la sua raccomandazione di non
trascurare le forme interregionali di italiano):
Fuori di Roma e fuori della Toscana, al sistema linguistico italiano si faceva ricorso
solo negli scritti e solo nelle occasioni più solenni (e nemmeno, come si vedrà, in tutte).
Per secoli, la lingua italiana […] ha vissuto soltanto o quasi come lingua di dotti.
3
La tesi esposta da De Mauro (e accolta pressoché unanimemente) ha antiche origini.
1
Tullio De Mauro, Storia linguistica dell’Italia unita, [1963], Roma-Bari, Laterza 1991, pp. 23-24.
2
Ibidem.
3
Ivi, p.27.
2
L’idea che il primato del toscano fosse dovuto all’eccellenza delle opere letterarie di
Dante, Petrarca e Boccaccio si afferma già nel primo Quattrocento, quando si comincia a
indicare questi autori come le tre corone fiorentine”
4
. Quanto alla scarsa diffusione
dell’italiano, ricordiamo, ad esempio, che Alessandro Manzoni nel 1821 aveva scritto:
Lorsqu’un Français cherche à rendre ses idées de son mieux, voyez quelle abondance
et quelle variété de
modi
il trouve dans cette langue qu’il a toujours parlée, […].
Imaginez-vous au lieu de cela un italien qui écrit, s’il n’est pas toscan, dans una langue
qu’il n’a presque jamais parlée, et qui (si me il est dans le pays privilégié) écrit
dans une langue qui est parlée par un petit nombre d’habitants de l’Italie […]
5
.
Notiamo però incidentalmente che nello stesso 1821 Giacomo Leopardi aveva
espresso l’opinione opposta, ritenendo il francese meno espressivo dell’italiano
6
.
Un’infinita serie di aneddoti, per esempio relativi alle difficoltà incontrate dai soldati
della Grande Guerra provenienti da regioni diverse nel comunicare tra loro, sembrano
confermare definitivamente questa tesi, che ha naturalmente importanti implicazioni sulla
valutazione delle probabilità di sopravvivenza della lingua italiana. Se infatti quella
italiana è stata solo una lingua letteraria usata da pochi cultori di belle lettere, priva di
radici diffuse, come potrà resistere alla doppia sfida posta dall’invadenza dell’inglese e
dalla rivalutazione dei dialetti? E che importanza può avere la sua eventuale estinzione?
È indiscutibile che nelle tesi ricordate vi sia molto di vero: non si può infatti dubitare
della profonda influenza delle opere dei trecentisti toscani sulla letteratura successiva
del fatto che fino a epoche recenti la grande maggioranza della popolazione italiana,
formata da contadini analfabeti, parlasse solo il proprio dialetto. Il dubbio può sorgere
però sull’assolutismo delle risposte precedenti: ci si può cioè chiedere se veramente la
prevalenza del toscano sugli altri volgari sia dovuta soltanto al prestigio letterario dei tre
grandi trecentisti toscani e se sia stato seguito il consiglio di De Mauro di non trascurare,
nei secoli precedenti l’Unità, l’influenza che le necessità del commercio ebbero nel tenere
in vita forme interregionali di italiano.
Per molti secoli il dibattito sulla lingua italiana si è concentrato sulla “questione della
lingua”, ossia su quale dovesse essere la norma della lingua italiana
7
, dedicando molto
meno interesse all’effettiva storia della lingua. Si può sospettare che questa tradizione
abbia contribuito a sovradimensionare, anche agli occhi degli storici della lingua,
l’importanza dei modelli letterari elevati rispetto ad altri fenomeni linguistici anch’essi
rilevanti.
Ci si può chiedere, in particolare, se la lingua italiana fuori dalla Toscana (e di Roma)
fosse realmente parlata solo da qualche dotto letterato o se fosse conosciuta, in misura
4
Già nel 1427 Giovanni Gherardi da Prato può riferirsi alle “tre corone fiorentine”, senza farne i nomi,
certo di essere compreso (Il paradiso degli Alberti, I, 2).
5
Alessandro Manzoni, lettera a Claude Fauriel del 3 novembre 1821.
6
Vedi, ad esempio, Giacomo Leopardi, Zibaldone, 1087 (nello Zibaldone vi sono molti altri passi sullo
stesso argomento).
7
Per una storia della questione della lingua si può leggere Claudio Marazzini, Da Dante alle lingue del
web. Otto secoli di dibattiti sull’italiano, nuova ed., 2013, Carocci, Roma (opera alla quale rinvio anche
per una bibliografia sull’argomento).
3
variabile, da settori della popolazione, certamente minoritari, ma non così esigui
confinati al solo mondo dei dotti. Su questo punto una tesi molto diversa da quella
tradizionale è stata sostenuta da Enrico Testa
8
che la presenta così:
Che prima dell’Unità sia esistito, almeno a partire dal Cinquecento, un tipo di italiano
che consentiva la comunicazione, scritta e parlata, tra individui appartenenti a diverse
classi sociali e provenienti da diverse zone del paese, è un’acquisizione tutto sommato
recente (e condivisa pacifica). L’interpretazione canonica della vicenda storica
dell’italiano è infatti un’altra.
9
Testa fonda la sua tesi su studi specialistici di varia natura: esamina le scritture di
persone semicolte dei diversi secoli e regioni, opuscoli a diffusione popolare (lunari,
almanacchi, ricette, avvisi a stampa, e così via) e anche la lingua (semplice, ma non
dialettale) usata dai letterati nella corrispondenza personale con servitori, fattori e altre
persone di scarsa cultura, che evidentemente erano in grado di comprenderla.
Ho trovato particolarmente interessante il capitolo sull’italiano d’oltremare. Se i
trattati di pace tra Russia e Impero ottomano nel Settecento furono redatti in italiano
10
,
non fu certo per seguire modelli letterari particolarmente ammirati, ma perché l’italiano
era noto ai turchi come lingua franca usata nei porti del Mediterraneo: evidentemente non
si trattava di un particolare dialetto di una raffinata lingua letteraria, ma di una
lingua usata a scopi commerciali.
Testa sostiene l’esistenza di un diffuso italiano di comunicazione almeno a partire dal
Cinquecento, limita cioè la sua affermazione ai secoli per i quali ritiene di disporre di una
documentazione ampia e incontrovertibile.
L’italiano “itinerario” di cui parlava Foscolo, e che De Mauro ricorda, risaliva però a
epoche più antiche. Ecco un campione delle sue argomentazioni:
Non però la nazione italiana mancava assolutamente d’una lingua comune, corrente
e vivissima in tutte le sue provincie intesa da Torino sino a Napoli, scorretta, deforme,
ed era anche un po’ letteraria; ma di quella letteratura plebea, la quale non sopravvive
alla seconda generazione. […]
Doveva dunque una lingua comune di questa specie esistere anche nel medio evo in
Italia; e partecipò altresì di apparenze di letteratura, dopo che fu diffusa perpetuamente
da’ frati di San Domenico e di San Francesco, che vagavano di città in città predicando
in tutte le chiese e su per le piazze. E certo a’ frati spetta una parte del merito d’avere
fino d’allora ampliati gli strettissimi confini della lingua comune, d’averla applicata a
soggetti non volgari, ed avvezzata la plebe d’ogni città italiana ad intenderla, ed a
credere che oltre i loro gerghi municipali, esisteva una lingua nazionale. Aggiungevasi
un’altra specie di ciurmadori più modesti e più gai, che involontariamente anch’essi
andavano al medesimo scopo. Erano i novellatori e narratori delle lunghe storie
miracolose di Carlo Magno, celebrate sino dal secolo undecimo in leggende d’ogni
maniera […]. Or i novellatori essendo anch’essi per lo più itineranti nel Medio Evo
propagavano la lingua comune arricchita delle parole necessarie a descrivere dame,
8
Enrico Testa L’italiano nascosto. Una storia linguistica e culturale, Einaudi, 2014.
9
E. Testa, op.cit., p. 12.
10
Testa ricorda (op. cit., p. 261) che furono redatti in italiano i trattati tra Russia e Impero ottomano di Prut
del 1711, di Belgrado del 1736 e di Küçük Kaynarca del 1774.
4
cavalieri erranti, guerre e imprese di giganti e di fiere, palazzi reali e incantati; e
aprendo alla immaginazione del popolo nuovi mondi, lo accostumavano a una lingua
meno volgare.
11
Poiché sia i predicatori domenicani e francescani sia i giullari e i cantastorie
percorrevano l’Italia sin dal XIII secolo, le considerazioni di Foscolo suggeriscono che i
primi passi verso una comune lingua parlata possano risalire alla stessa epoca
dell’affermarsi del fiorentino. In questo caso il prevalere del fiorentino potrebbe essere
un fenomeno non indipendente dall’inizio della formazione di una lingua orale comune.
Oltre ai predicatori e ai cantastorie un’altra categoria interessata a una lingua comune
comprensibile in tutt’Italia era quella dei mercanti.
Un passo del Decameron mostra che, secondo Boccaccio, i mercanti italiani delle
diverse regioni comunicavano tra loro senza incontrare le difficoltà che i contadini
avrebbero avuto ancora all’inizio del XX secolo:
Venuto adunque Sicurano in Acri signore e capitano della guardia de’ mercatanti e
della mercatantia, […] e andando dattorno veggendo e molti mercatanti e ciciliani e
pisani e genovesi e viniziani e altri italiani vedendovi, con loro volentieri si dimesticava
per rimembranza della contrada sua.
12
In quale lingua Boccaccio pensava che parlassero tra loro questi mercanti?
Nel corso del Duecento varie città toscane, come Pisa, Lucca, Siena e Firenze, ebbero
uno straordinario sviluppo economico
13
e verso la fine del secolo Firenze prevalse sulle
altre, emergendo come potenza economica a livello internazionale. Carlo Maria Cipolla
scrive:
Firenze ebbe uno sviluppo eccezionale nel corso del Duecento e alla fine di quel secolo
arrivò a rappresentare per il mondo di allora quello che Londra rappresentò per
l’Ottocento: non solo un grande centro culturale, commerciale e manifatturiero, ma
anche la principale piazza finanziaria del tempo.
14
Il fiorino d’oro ebbe un tale successo su tutte le piazze d’Europa che in Francia una
generica moneta d’oro era detta florin.
L’importanza del ceto mercantile nell’evoluzione linguistica è chiara. La sottolinea
anche Bruno Migliorini che, discutendo dei motivi del prevalere a Firenze nella lingua
scritta del volgare sul latino, fenomeno risalente più o meno alla stessa epoca in cui il
fiorentino si impose sugli altri volgari, ha scritto:
Il salire in considerazione della lingua nuova è principalmente frutto della civiltà
comunale: il latino rischiava di essere monopolizzato da un ristretto gruppo di
11
Ugo Foscolo, Saggi di letteratura italiana. Parte prima: Epoche della lingua italiana, Firenze 1958, Le
Monnier, pp. 209-211.
12
Giovanni Boccaccio, Decameron, II giornata, novella IX, «Bernabò di Genova da Ambrogiuolo
ingannato...»
13
Vedi, per esempio, Richard A. Goldthwaite, The economy of Renaissance Florence, Baltimore, Md., The
John Hopkins University Press, 2009, pp.12-22.
14
Carlo M. Cipolla, Il fiorino e il quattrino. La politica monetaria a Firenze nel 1300, Bologna, Il Mulino
2013, p. 25.
5
professionisti, e sarebbero rimasti esclusi dalla cultura i mercanti, cioè il nerbo più attivo
della città…
15
Alcuni studiosi hanno anche ricordato esplicitamente il successo economico di Firenze
tra le cause del prevalere del fiorentino. Maurizio Vitali, ad esempio, inizia la sua opera
sulla storia della questione della lingua scrivendo:
Il fiorentino antico e scritto, quale si fissa con procedimenti d’arte nei grandi scrittori
trecenteschi, e si impone mediante il prestigio letterario e culturale dei sommi auctores
fiorentini e nel solco della prodigiosa fortuna di Firenze borghese e mercantile nell’età
comunale […] è il fondamento dell’italiano comune.
16
In definitiva, sembra ragionevole supporre che negli ambienti mercantili la lingua
fiorentina si fosse affermata non soltanto per i modelli letterari forniti dalle “tre corone”,
ma anche grazie alla potenza commerciale e finanziaria di Firenze e che i mercanti
abbiano avuto qualche ruolo anche nel prevalere generale, nei ceti semicolti, della lingua
toscana e in particolare fiorentina sugli altri volgari. In tal caso l’evoluzione della nostra
lingua avrebbe seguito logiche non troppo dissimili da quelle che hanno riguardato tutte
le altre lingue (affermatesi sempre per potivi politici e/o economici).
In tutte le comunità nazionali, nella formazione e diffusione di una lingua comune, la
scuola ha sempre avuto un ruolo di rilievo. Nel Duecento si moltiplicarono in Italia le
scuole laiche, sia private sia comunali (l’interesse delle autorità ecclesiastiche per
l’istruzione dei laici finì con lo scomparire quasi completamente nel corso del secolo, per
risorgere solo nel Cinquecento
17
). Un settore che può dare preziose informazioni
sullevoluzione linguistica dell’Italia nei secoli precedenti il Cinquecento è quindi lo
studio della lingua usata nelle scuole comunali, che certamente non si rivolgevano solo a
“dotti”.
Chi, dopo avere imparato a leggere e scrivere in una scuola elementare, voleva
continuare gli studi poteva scegliere tra una scuola di grammatica, in cui si studiava il
latino, e una scuola d’abaco, un tipo di scuola caratteristico dell’Italia, in cui si
insegnavano l’aritmetica e la contabilità commerciale, necessarie in particolare a chi
intendesse intraprendere l’attività mercantile. Poiché nelle scuole di grammatica,
frequentate da ragazzi dei ceti superiori, spesso intenzionati a proseguire ulteriormente
gli studi all’università, l’insegnamento era in latino, ai nostri fini interessa la lingua usata
nelle scuole d’abaco, i cui alunni erano reclutati soprattutto (ma non solo
18
) nelle famiglie
di artigiani e commercianti. È ben noto che in tali scuole l’insegnamento era tenuto in
volgare: si trattava solo del volgare locale?
All’origine delle scuole d’abaco e dei relativi manuali vi è un mercante toscano
divenuto il più grande matematico del suo tempo: Leonardo Pisano, detto Fibonacci. Il
15
Bruno Migliorini, Storia della lingua italiana [1960], Milano, Bompiani, 1994, p.181.
16
Maurizio Vitale, La questione della lingua, Palumbo editore, 1978
2
. Il libro contiene un’utile antologia
di scritti sull’argomento.
17
Vedi, ad esempio, Paul F. Grendler, La scuola nel Rinascimento italiano, Laterza, 1991, pp.7-48.
18
A volte anche ragazzi dei ceti superiori frequentavano queste scuole, spesso alternandole con gli studi
nelle scuole di grammatica: è ciò che fece, ad esempio, Niccolò Machiavelli.
6
suo fondamentale Liber abaci, pubblicato nel 1202 (che dette un contributo essenziale
alla diffusione in Europa della numerazione posizionale con le cifre arabe) è scritto in
latino; Leonardo aveva pescritto anche unopera perduta in volgare (ovviamente
toscano): il Trattato di minor guisa (probabilmente una versione ridotta e semplificata
dell’opera principale). Sappiamo che Fibonacci si dedicò anche allinsegnamento,
iniziando la tradizione delle scuole d’abaco; il Comune di Pisa infatti nel 1241 gli assegnò
un salario annuo per i servizi da lui resi in materia
19
.
Dalla seconda metà del Duecento in poi le scuole d’abaco si moltiplicarono, prima in
Toscana e poi diffondendosi via via nelle altre regioni italiane.
Maestri e manuali d’abaco contribuirono a esportare forme linguistiche toscane tra i
ceti semicolti di altre regioni, in particolare negli ambienti mercantili? Credo che
l’argomento meriti uno studio approfondito, ma l’impressione che le scuole d’abaco
abbiano costituito uno dei canali di diffusione di una forma di italiano semplice tra
persone con modesta cultura letteraria è suggerita da vari elementi.
La storica della lingua Paola Manni, descrivendo la distribuzione geografica dei
manuali d’abaco, scrive:
A parte il primo libro d’abaco che si conosce, che è umbro, i libri d’abaco più antichi,
quelli trecenteschi, sono in assoluta maggioranza toscani, con qualche significativa
presenza veneta; mentre successivamente, nel corso del Quattrocento, l’orizzonte si
allarga coinvolgendo soprattutto (ma non solo) l’Italia settentrionale, dove primeggia
ancora il Veneto.
20
Il più antico manuale d’abaco noto è in effetti il Livero de l’abbecho di un anonimo
maestro umbro, risalente alla fine del XIII secolo
21
, nel cui incipit si riconosce come
modello l’opera di Leonardo Fibonacci: Quisto ène lo livero de l’abbecho secondo la
oppenione de maiestro Leonardo de la chasa degli figluogle Bonaçie da Pisa. Già in
quest’opera la lingua, pur essendo umbra, sembra in qualche caso influenzata dal modello
pisano. Vista l’assoluta preponderanza di manuali toscani, è presumibile che tali manuali
fossero usati anche in molte delle scuole d’abaco sorte nelle altre regioni dItalia, e poiché
vari esempi suggeriscono che fosse abbastanza diffuso l’uso di chiamare a insegnarvi
maestri provenienti dalla Toscana
22
, si può ragionevolmente congetturare che il toscano
19
La delibera dei magistrati pisani è riportata a p. 124 in Elisabetta Ulivi, Scuole e maestri d’abaco in Italia
tra medioevo e Rinascimento, in Enrico Giusti (a cura di), Un ponte sul Mediterraneo. Leonardo Pisano,
la scienza araba e la rinascita della matematica in Occidente, Firenze 2002, Edizioni Polistampa, pp. 121-
159.
20
Paola Manni, La matematica in volgare nel Medioevo (con particolare riguardo al linguaggio
algebrico), in R. Gualdo (a cura di), Le parole della scienza. Scritture tecniche e scientifiche in volgare
(secoli XIII-XIV), Atti del Convegno (Lecce, 16-18 aprile 1999), Galatina 2001, Congedo Editore, pp. 127-
152, 128.
21
Gino Arrighi, Maestro umbro (sec. XIII), Livero de l'abbecho. Codice 2404 della Biblioteca Riccardiana
di Firenze, in «Bollettino della deputazione di Storia patria per l'Umbria», 86 (1989), pp. 5-140
22
Elisabetta Ulivi, nell’opera già citata, elenca molti maestri d’abaco noti. Limitandoci alle scuole al di
fuori della Toscana, ricorda: a Bologna tre maestri di provenienza non nota e il maestro fiorentino Antonio
Bonini Biliotti; a Perugia l’autore umbro del libro già citato; a Verona Lotto da Firenze, Biagio da Prato,
Simone de’ Rossi da Pisa, Marco Boninsegna da Pisa, un maestro Baldassarre veronese e Niccolò Tartaglia
(sul quale torneremo); a Savona Nello da Pisa e Daniele da Pisa; a Genova tre pisani (Tommaso di Miniato,
Tommaso di Bonaccio e Giacomo), il fiorentino Pietro di Lapo e altri tre maestri di provenienza non nota;
7
fosse spesso usato in tali scuole come lingua di insegnamento, contribuendo a diffondere
la lingua fiorentina in ambienti non solo mercantili, ma anche artigianali.
Un elemento a favore di questa congettura viene dal primo manuale d’abaco
pubblicato a stampa: l’Aritmetica di Treviso, detta anche l’Arte dell’abbaco, stampata
appunto a Treviso il 10 dicembre 1478
23
. L’opera, pubblicata in forma anonima, inizia
esponendo l’argomento trattato e individuando il pubblico cui si rivolge: Incommincia
una practica molto bona et utile: a ciaschaduno chi vuole usare larte della merchadantia,
chiamata vulgarmente larte de labbaco. L’Arte dell’abbaco, pur pubblicata in Veneto,
usa chiaramente la lingua italiana.
Il ruolo linguistico delle scuole d’abaco, se provato, potrebbe essere connesso con
un’altra manifestazione di vitalità dell’italiano all’esterno degli ambienti letterari: il suo
uso precoce nella letteratura scientifica e tecnica.
Nel 1537, quando in tutta Europa la scienza si scriveva ancora in latino, un secolo
prima che Galileo facesse una scelta simile, il bresciano Niccolò Tartaglia pubblica in
italiano l’opera che inaugurò gli studi di balistica: la Nova Scientia. Tartaglia racconta di
essere andato a scola de scrivere solo per una quindicina di giorni alletà di 14 anni,
imparando a scrivere le lettere dell’alfabeto fino alla lettera k
24
. Aveva poi dovuto
imparare le lettere successive da solo perché non era più stato in grado di pagare il
maestro. Da autodidatta studiò poi anche matematica e latino, ma non possiamo certo
definirlo un letterato. Aveva dovuto studiare il latino per poter leggere la letteratura
scientifica, ma perché, non essendo toscano né per nascita né per adozione, aveva
imparato l’italiano? Si può immaginare che l’avesse fatto non tanto per poter apprezzare
e imitare i capolavori dei letterati trecentisti, quanto perché, guadagnandosi da vivere
come pubblico maestro d’abaco a Verona (incarico nel quale era stato preceduto da
diversi toscani
25
), usava l’italiano nell’insegnamento; se, d’altra parte, aveva scelto di
scrivere in italiano un’opera rivolta a tecnici esperti di artiglieria come la Nova scientia
si aspettava evidentemente che anche quei tecnici lo conoscessero.
Un secolo prima (nel 1435) Leon Battista Alberti aveva scritto in volgare fiorentino il
trattato Sulla pittura (che aveva poi tradotto in latino). Alberti, a differenza di Tartaglia,
era un dotto e raffinato umanista fiorentino, ma quella sua opera, che conteneva il primo
tentativo di esporre la teoria della prospettiva, era rivolta a un pubblico, certamente non
regionale, di pittori: una categoria alla quale Alberti evidentemente pensava fosse
opportuno rivolgersi in italiano. Vale forse la pena ricordare che lo stesso Leon Battista
Alberti aveva raccomandato ai giovani di integrare gli studi letterari con quelli d’abaco
26
.
a Modena il maestro Altovita di Firenze, Giovanni di Verona e Bastiano di Pisa; a Brescia Benedetto da
Firenze e altri maestri di provenienza non nota; a Venezia un Dardi forse da identificare con Dardi di Pisa,
il fiorentino Piero di Lapo (che aveva insegnato anche a Genova) e vari altri maestri di provenienza non
nota.
23
Una ristampa in facsimile è stata pubblicata dalla Società tipografica Cremona Nuova nel dicembre 1969.
24
Niccolò Tartaglia, Quesiti et inventioni diverse, 1554, f. 69v.
25
Vedi sopra, nota 22.
26
Leon Battista Alberti, Libri della famiglia, a cura di R. Romano e A. Tenenti, Torino, Einaudi, 1969,
p.86.