A macchia di leopardo
Sandro Moriggi

Ho sentito dire che invecchiando riaffiorano, vividi, ricordi di un passato lontano. E così mi è tornata in mente una lezione-performance tenuta da Carmelo Bene forse all’università di Cosenza, vista su Rai3 negli anni ‘90, provocatoria e paradossale, tipica del personaggio.


L’argomento era la scuola e gli studenti; la tesi è che i due termini costituiscono un ossimoro, un accostamento impossibile, una antitesi, sono in contraddizione insanabile.

Etimologicamente scuola ha il significato originario di riposo, ozio, disoccupazione, agio, tempo libero da occupazioni; e studente, o studiere come dice Carmelo Bene, è colui che desidera, aspira, cerca, tende a. E quindi la scuola è la palestra dell’ozio e lo studio il desiderio di sapere. Entrambe i termini mi sembrano sottendono un’idea di piacere, di divertimento.
Ma da Carlo Magno in poi il significato delle parole sì è snaturato. E il piacere non c’è più. Sostituito dal dovere. E su questo ritornerò poi.

Dico questo perché nel mondo dell’istruzione oggi in Italia c’è un altro ossimoro, una associazione impossibile: scuola e azienda. E questo binomio ne implica altri ugualmente inconciliabili: sapere e produttività e ancora: cultura e profitto e apprendimento e controllo di qualità.

L’innesto dell’ideologia d’impresa che pervade sempre più la nostra scuola ha origini ormai lontane: inizia forse con il primo governo di tecnici, il governo Dini, nel 1995 quando ministro della Pubblica Istruzione era Lombardi, non per nulla grande imprenditore tessile e Vicepresidente della Confindustria. La ministra Valeria Fedeli, quella che ha frequentato la scuola più da ministra che da studentessa, così commemora Giancarlo Lombardi in occasione della sua scomparsa nel 2015: «Viene a mancare un uomo - sottolinea Fedeli - che ha fatto tanto per il mondo dell'istruzione e per il mondo del lavoro. Fu tra i primi a spingere per l'autonomia scolastica con l' obiettivo di ridurre il centralismo e la burocrazia, per l' innovazione tecnologica nella scuola, per agevolare il rapporto fra scuola e lavoro, gettando le basi per quel cambiamento culturale che si sta dispiegando oggi nei nostri istituti scolastici. Voleva una scuola di qualità per tutte e tutti».

E appunto è proprio l’avvio del progetto di riforma “autonomia scolastica” che segna l’inizio dela fine.
Nel 1997 la legge Bassanini con il governo Prodi, introduce l’autonomia scolastica e nasce il POF: ogni singola scuola deve promuovere sul mercato una propria «offerta formativa», soffocata di aria fritta su formule pedagogiche, per il maggior numero di studenti-clienti. La scuola diventa una servizio, non è più il luogo della formazione culturale e anche personale delle giovani generazioni. Deve ‘produrre un prodotto’ di cui si deve controllare la qualità e la cui caratteristica fondamentale è la duttilità, la versatilità, la disponibilità a cambiare secondo le esigenze del mercato, perchè questo chiedono le imprese.

L’operazione si compie con la ‘grande riforma’ di Luigi Berlinguer, l’artefice dell’attuazione dell’autonomia scolastica, della distruzione dell’università, con la formula 3+2 e il mercato dei crediti, e delle modifiche dell’esame di stato che vanno in pensione quest’anno lasciando il posto al fantasioso e imperscrutabile fenomeno della scelta della busta con le domande, in perfetta linea con la coreografia dei quiz televisivi.
Non basta. Perchè la scuola sia ‘di tutte e tutti’, Berlinguer, ministro nei governi di centro-sinistra D’Alema, vara anche la legge sulla parità, che comporta il progressivo definanziamento delle spese per l’istruzione pubblica, cui corrisponde un aumento dei soldi pubblici destinati alle scuole private, per lo più cattoliche. La scuola pubblica diventa sempre più povera.

E con i governi di destra di Berlusconi, le ministre Moratti e Gelmini [tra un tunnel per neutrini da Ginevra al Gran Sasso e l’altro] non fanno altro che rifinire l’opera: tagli ai finanziamenti, test di valutazione e punizioni leggittimate dalla macchina del discredito nei confronti di chi lavora con la cultura e il sapere.

L’imposizione dello scenario di una scuola azienda e teatro di competizione anziché luogo deputato allo sviluppo della formazione dei giovani, unita alla gestione imprenditoriale delegata ai presidi dotati di un nuovo eccezionale potere tende a limitare sempre più la libertà di tutti i soggetti che ‘fanno’ la scuola, sia degli studenti sia dei docenti e dei non-docenti e va di pari passo con l’attacco forte alla dimensione pubblica, cioè di tutti, della scuola, con la vertiginosa riduzione degli stanziamenti economici per le strutture e per i lavoratori della scuola stessa.

E ora questo sciagurato governo verde con sfumature giallastre sta per varare il decreto sull’autonomia regionale, che consegnando alle regioni, tra le altre competenze, la gestione totale dell’istruzione produrrà inesorabilmente una frattura incolmabile tra zone ricche e povere, tra nord e sud, distruggendo quel poco che resta di unità e omogeneità nazionale fino ad oggi esistente, almeno sul piano istituzionale. Gli studenti del sud senza prospettive potranno essere facile preda della manovalanza criminale e quelli del nord, allenati nell’alternanza scuola-lavoro, utili oggetti per una forza-lavoro malleabile e sempre disponibile.

In questo quadro e su queste valutazioni politiche nasce Progetto Fibonacci.

Non si tratta certamente di dare soluzione a questa situazione, ma di proporre un’ipotesi di impulso alla trasformazione e alla organizzazione di una risposta che contrasti nei fatti la distruzione materiale e culturale della scuola pubblica italiana.

E ancora, per tornare al cenno fatto in precedenza al significato denso di ‘dovere’ e privo di ‘piacere’ assegnato al vocabolo ‘scuola’, un tentativo va fatto per costruire una cultura che dia soddisfazione e gusto sia a chi impara sia a chi insegna. Una via possibile per studiare con piacere può essere scoperta affrontando non più situazioni e temi parcellizzati, isolati con una pratica riduzionista dai contesti storici e culturali che li hanno prodotti; tanto per fare un esempio banale, addestrare alla verifica della correttezza di un prodotto è ben diverso dallo scoprire quali ragioni hanno portato Fibonacci a descrivere la prova del nove, a chi la voleva insegnare e perché; dove, come e da chi l’aveva imparata lui stesso: e queste sono solo poche e stringate indicazioni delle innumerevoli sequenze di conoscenza alle quali si potrebbe accedere anche su un argomento aritmetico così limitato.

Affrontare la complessità della conoscenza è probabilmente faticoso, richiede tempo e concentrazione, ma genera certamente appagamento e soddisfazione. E non può né deve rispettare i tempi della produzione, vale a dire la logica del profitto.

Credo che Progetto Fibonacci possa contribuire alla creazione si sacche di lavoro intellettuale gratificante per chi le vive, zone nella nostra scuola in cui si costruisce autoorganizzazione della cultura e del lavoro di studenti e insegnanti, in cui vincono le libertà: di capire, di pensare, di studiare, di essere curiosi, di sperimentare, di trasformare.

Le chiamo sacche perché, sempre in quel percorso di reminiscenze lontane, mi è tornata in mente quell’espressione che dall’autunno di lotta del ‘69 in poi definiva gli scioperi autonomi, improvvisi e delocalizzati, degli operai nelle linee di produzione: a “macchie di leopardo”. E così era anche indicata la situazione del territorio vietnamita, in cui le macchie erano le zone liberate dai viet-cong durante il conflitto con le forze americane.

Sarebbe interessante riuscire a disegnare una pelle di leopardo sulla scuola italiana, con macchie dove si vive la liberazione dalla ‘buona scuola dell’azienda e del merito’, in cui gli studenti smettano di tentare di divenire ‘imprenditori di se stessi’ e i docenti non debbano più preoccuparsi di addestrare e di misurare. Naturalmente questo sarebbe solo il primo passo verso la trasmutazione genica che da leopardi maculati produce pantere nere.

Ho scherzato un po’ con le parole e i ricordi, ma del resto il gioco è una faccenda molto seria, o no?